Un bevitore di stelle...
di Mario Pagliano
tratto dalla rivista "Il Sancarlone"

 

È stato senz’altro un Natale venato di tristezza per chi ha conosciuto ed apprezzato – e siamo in tanti – Gian Vincenzo Omodei Zorini, improvvisamente ed imprevedibilmente deceduto il 23 dicembre, mentre in treno si recava a Genova, per visitare una mostra.

È morto, per così dire, sul campo, perché la sua partecipazione a manifestazioni storico-artistico-letterarie era più che assidua: era appassionata ed intelligente e tale da accogliere di essa tutti quegli aspetti che magari ai più solitamente sfuggono, ma che egli, parlandone o scrivendone, sapeva far apprezzare nelle loro peculiari anche se recondite preziosità.

Certo, Gian Vincenzo Omodei Zorini era medico, ma direi ch’egli vivesse intensamente due esistenze parallele che, in una singolare e quasi preveggente sommatoria, sembrano compensative della sua purtroppo breve, ma mirabile esperienza terrena: quella professionale, caratterizzata da scrupolo scientifico, uno scrupolo che lo faceva talvolta apparire accigliato nell’esercizio della sua funzione, e quella culturale, che senza dubbio lascerà una traccia luminosa ed indelebile.

È di quest’ultima che vorrei brevemente trattare, anche se è impossibile farlo adeguatamente negli esigui spazi di un articolo, ed anche se – accanto alla gratitudine che gli devo per quanto egli m’ha spiritualmente arricchito – non posso ovviamente tacere i consigli e gli interventi di cui m’ha beneficiato come medico.

Va subito detto che la sua attività di scrittore è imponente. D’una imponenza balzachiana: una fiumana di scritti, vivificanti momenti del passato e del presente, di cui altri s’occuperà, perché Gian Vincenzo Omodei Zorini merita d’essere fatto oggetto di studio e, oserei dire, di consacrazione letteraria. Qui, io, molto più modestamente e sulla spinta d’una amara, dolorosa sorpresa provocatami da così improvviso, inspiegabile, inaccettabile andarsene, accennerò – rapsodicamente – a qualcuna (soltanto a qualcuna!) delle cose belle ch’egli, sul piano storiografico-letterario, ebbe a fare.

Per esempio, quel suo aggirarsi nel mondo subalpino, ovattato, tardo ottocentesco ed illustrato dal disegnatore satirico Casimiro Teja, che Gian Vincenzo Omodei Zorini, in uno dei suoi scritti così dotti ed arguti, sottrae a quel “limbo culturale” in cui i caricaturisti vengono spesso relegati, per evidenziare come una tale mordace matita abbia reso meno lontana dalla gente comune l’immagine fisica di chi sta in alto, in un’epoca in cui il “potere” rimane qualcosa di misterioso - data l’assenza degli attuali visualizzanti mezzi d’informazione – e quindi di ancor più inaccessibile e di… terribile.

O anche la macabra – ma pur sempre gustosa, nel rimembrare omodeizoriano – diatriba disputata negli ambienti medico-giuridico-giudiziari torinesi (siamo nel 1853) sulla preferenza da accordarsi, nell’applicazione della pena di morte, alla forca o alla ghigliottina. Vi sono argomentazioni d’una insuperabile, orrorosa, singolarità, addotte “pro” o “contra” ciascuna delle due lugubri tesi, che soltanto un instancabile ricercatore di cose antiche, curiose e strane (come vecchie tabacchiere e connessi impenitenti tabacconi, e pillole per verginee e svenevoli fanciulle ottocentesche, per esempio) quale Gian Vincenzo Omodei Zorini avrebbe potuto scovare.

Torino, Milano: l’infiammato capoluogo lombardo delle cinque quarantottesche giornate emerge corrusco nella ricostruzione dell’episodio, reso noto dal Nostro e poi ripreso da alcuni manuali, del seminarista Antonio Stoppani (il futuro celeberrimo autore de “Il bel paese”) impegnatissimo a mantenere, contro gli Austriaci, i collegamenti tra la città insorta e la campagna, per il tramite di mini-mongolfiere ideate e prodotte nell’aula di chimica del seminario dal giovane levita.

Da Milano alle Langhe, alla sua sapida collaborazione a “Le colline di Pavese”, in cui viene esaltata la perennità – attraverso epoche e personaggi dislocati in tempi storici diversissimi – di quanto di eccitante, di morbido, di appagante v’è nel vino: ho sott’occhio due articoli, meritevoli d’essere ulteriormente approfonditi, dai titoli estremamente significativi e stimolanti: “Gli Ebrei e il dono della vite” e “Anche a Leopardi il vino non dispiaceva”.

Certamente non possiamo non trasferirci, condotti dal suo sorridente ma rigoroso narrare, dalle Langhe ad Arona. Ad un’Arona fatta di lontani, polverosi, buoni accadimenti, rivitalizzati da Gian Vincenzo Omodei Zorini in chiave scherzosa, come quelli riferitici mediante il romanzo di tal Giuseppe Torelli “La Statua di San Carlo Borromeo”, uno dei frutti della sua segugesca attività, oppure quelli propostici nella sua più recente e brillante fatica: “Echi di un Eco”, in cui tutto uno spaccato di vita aronese dell’inizio del secolo (1900) cattura ed affascina e solletica irresistibilmente, trasferendovisi, l’emotività del concittadino contemporaneo che non può rivivere affettivamente quelle remote esperienze.

Gran merito di Gian Vincenzo Omodei Zorini l’avere ancorato il presente – un presente da lui generosamente vissuto - ad un passato che di quel presente costituisce la radice: una radice messa in luce in tutti i suoi aspetti sconosciuti, tragicomici, sconcertanti, mirabolanti, ciarlataneschi, allegri, dolorosi!

Ma c’è anche un altro tratto caratteristico di Gian Vincenzo Omodei Zorini che io ravviserei, forse arbitrariamente, in certa affinità elettiva con quel “maudit” che fu Ernesto Ragazzoni e che tanto caro fu al Nostro. C’è un’elegante raccolta di versi del dissacrante scapigliato cusiano, di cui Gian Vincenzo ebbe ad omaggiarmi, che trae titolo da una lirica del Ragazzoni: “I bevitori di stelle”. Ebbene, mi sembra che Omodei Zorini, oltre che accorto, raffinatissimo centellinatore di vini eccelsi, sia stato anch’egli un bevitore di stelle, là dove per bevitori di stelle si intende gente avida di luminosità. Già, perché Gian Vincenzo Omodei Zorini lo era.