Poesie di Alessandro Nannini

Attesa

T’aspetto alla fermata gelida del tram
a metà fra le vetrate gotiche sui cieli
e il pianto scuramaro della terra
nell’istante in cui le strisce pedonali
sono piste d’atterraggio per le nostre voci roche,
aspetto l’amen del tuo volto con le quattro sigarette
che fumano e s’accorciano
come i pallidi lampioni che lungo il viale
sembrano chiamare nuova luce dalle strade,
dai passanti intabarrati in un terrore
che li chiude. Ho le tasche colme di comete
senza chioma e l’oceano che sciaborda
sulle scarpe povere di tela, decalitri di sonno
sull’altare di un esausto marciapiede
che eleva in sacramento il rantolo dei passi.

Tu opera il miracolo, alba a trecce sciolte
che incoronano la nuca d’invisibile,
trasforma queste impronte nelle tracce di un destino
e intona in re minore una preghiera per i vivi
che abitano ancora la preistoria del silenzio
in cui nasce l’urgenza intorpidita di un inizio,
la parola che si china sugli oggetti
e li raccoglie nella nostra umanità.

Ma subito si spande l’eco dura del dolore
e si inizia, tende in spalla, la traversata della lingua
come ci si inoltra in un deserto d’altipiano
per cercare quella sillaba assopita dentro il sole
che ci salvi dalla lacrima leggera del tramonto.

Negli occhi resta umida la brace di una nota
un po’ stonata, la coincidenza persa per un niente
tra le macerie ruvide del giorno, e nel niente,
in quel millilitro di sabbia, mi accampo
nell’attesa del risveglio, superstite tuareg,
raggomitolato sul tuo sguardo d’acqua fresca
come in una sindone madida di luce.

Partenze

Che cos’è questo odore di partenza
che avvolge i nostri petali vibranti
nel polline fumoso dell’assenza
e segna l’ora cupa dei rimpianti,
quando il tempo si muta in un gabbiano
che getta la sua ombra sugli oggetti?
Così il mondo è l’impronta di una mano
sopra un treno, l’emorragia d’affetti
che deraglia oltre l’ultimo vagone,
lasciando sul binario un luccichio.
È questa la speranza che m’impone
la lotta luminosa con l’oblio,
perché del mio saluto alla stazione
sia eco il fischio muto del tuo addio.


Notte

Della notte conosco due segreti:
il primo è il nostro incontro ad ora tarda,
nella palude insonne degli inquieti
che viaggiano con l’occhio che non guarda
all’orologio e sperano un sorriso
per riscattare il vecchio cuore a nolo.
L’altro è il peso del cielo sul tuo viso
quando la notte ha steso il suo lenzuolo
di lamiere stropicciate nel salto
rovinoso del sangue oltre la pelle
sulla corolla oscura dell’asfalto.
Così il mio viaggio senza caravelle
annega nel tuo sonno tanto alto
da sfiorare il silenzio delle stelle.


Alba

Mi calo nella grotta dei tuoi occhi
in quest’alba gessata d’ospedale,
mentre tuonano pallidi i rintocchi
dei lamenti sedati dalle fiale.
Il lago dei ricordi si fa diga
al diruparsi immobile del lampo
che squarcia con lo sguardo la lettiga
su cui ti volti in preda a un altro crampo.
La flebo è lenta come una preghiera
che spunta dalle vene – l’ago un fiore.
Non basta un’invisibile frontiera
per esiliare il volto di chi muore:
un piatto cardiogramma non azzera
il canto clandestino del tuo cuore.