Un giardino degli aranci

Ci stavamo incamminando, io e mia madre, lungo il viottolo che portava alla "Villa". Curve, grigie e svuotate, ci trascinavamo dietro mia nonna, che faticava a seguire il nostro passo e che, ad ogni deviazione o irregolarità del terreno, rischiava di cadere in avanti senza più alcun controllo motorio né la minima possibilità di proteggersi.
Era stata soprattutto la preoccupazione per quell'equilibrio che non esisteva più che, alla fine, ci aveva spinto alla decisione. Mia nonna si era ammalata circa due anni prima, e il tutto si era repentinamente manifestato proprio con una rovinosa caduta in casa, mentre era sola, nella notte. Caduta di cui ci potemmo accorgere solo il mattino seguente, quando mia madre, andata a farle visita, se la vide apparire sull'uscio come un povero spettro, straniato e sperso nella sua maschera di sangue. Poi, in una ridda burrascosa e un po' folle di cadute a ripetizione, diagnosi multiple, ospedalizzazioni sfinenti e disaccordi familiari feroci sulla maggior parte delle direzioni da prendere, erano trascorsi tutti quei mesi. I tentativi di riportarla ad una condizione di vita che il più possibile si avvicinasse - per il tempo che restava - ad una "quasi-normalità" tranquilla, erano oscillati da una prima prova in un istituto per anziani dal nome altisonante, finita in catastrofe, al trovarle una badante che offrisse la possibilità di non farle abbandonare la propria casa. E su questa seconda opzione, io e mia madre, eravamo sempre restate ferme ed irremovibili come due scogli. Almeno fino al momento in cui la prima signora che se ne occupava, sino ad allora con sollecitudine ed affetto, tutto ad un colpo misteriosamente mutò e se ne andò. Le signore che seguirono non riesco neppure a ricordarmele distintamente, così come dubito potesse distinguerle mia nonna che, nel frattempo, aveva cominciato a peggiorare con rapidità e a perdere ogni autonomia residua.
Fu allora la decisione. Mi piacerebbe dire "nostra" decisione, ma non riesco ad impedirmi di sentirla, in fondo, soprattutto come "mia". Il parere, che era di un giovane medico oltre che di nipote…Razionalmente, sapevo che la "Villa", dal nome meno altisonante del primo istituto ma dall'apparenza molto più accogliente ed organizzata, era la decisione giusta. Tutto il resto, mi dicevo, non potevo prefigurarmelo. O forse sì.….

- Buongiorno, care signore! - Buongiorno...
Avevamo appena, a scatti lenti, richiuso dietro di noi il cancello d'entrata della "Villa", che una voce argentina e vivace ci riscosse. … Accomodata su una chaise-longue, i polsi un poco reclinati sui braccioli, occhiali scuri fascianti e foulard accoccolato con cura intorno al collo, una signora ci dava sorridente il suo benvenuto. E ce lo dava in tutta naturalezza: cosa che, più che stupirmi, in un primo momento mi procurò un acuto fastidio. Strideva troppo con il quadretto di noi tre, e con lo stato d'animo che ci portavamo dietro. Così come strideva l'arancione spavaldo di un grosso e lucido frutto, succosissimo all'apparenza, che se ne stava appoggiato su un tavolino da giardino e sul quale - quasi come ad accarezzarlo - era andato a posarsi il polpastrello del dito indice della signora.
Un'altra voce ci riscosse di nuovo, facendoci sobbalzare e voltare le spalle a quella prima, inusuale, visione. Era il saluto professionale della segretaria, la quale compita dapprima ci condusse a visitare i locali della struttura - mia nonna sempre al seguito, barcollante e muta - e, da ultimo, la stanza da letto assegnata…: due letti composti, disposti simmetricamente l'uno di fronte all'altro, e una finestra che si allargava sulle montagne vicine e note, ma all'improvviso anguste nell'oscurità che stava cominciando a sommergerle.
- Buongiorno, care signore!
La compagna di stanza di mia nonna, con la sua grossa arancia ben stretta in una mano, era entrata per presentarsi.
Soggiornava lì, la signora V., da un numero di anni imprecisato. Nebulosa anche la sua provenienza, per non parlare della sua famiglia che nessuno, lì dentro, aveva memoria di avere mai conosciuto. Ed era del tutto inutile, nella conversazione, il domandarle di raccontare un po' della sua storia perché - ad aver perduto la memoria - era soprattutto lei, affetta da una forma selettiva, ma estremamente seria, dì "patologia dei ricordi". … in lei era sorprendente come solo la memoria dei fatti recenti e passati fosse stata intaccata, … davvero ben poco, se non nulla, appariva in grado di riemergere dai cassetti mentali della sua esistenza, così come nulla di nuovo sembrava vi si potesse depositare.
Esisteva soltanto la sua distinta e ben curata persona, circoscritta nel frammento di spazio e di tempo del "qui" ed "ora". Ma in quel frammento ella si muoveva lucida e nitidamente presente a se stessa… E non bastava, perché in quel frammento, su quella sorta di isola sospesa, ella amava invitare e quando possibile ospitare, qualsiasi persona incontrasse. Ed era così che la signora V. si occupava degli altri ospiti della "Villa", e a ben guardare non solo degli ospiti. …
E attraverso la gentile dolcezza, l'intensa pura dolcezza che lei, così attentamente concentrata nello sgranare i minuti irripetibili come spicchi di una preziosissima arancia, doveva saper gustare e trasmettere a quegli infelici che sicuramente avrebbero voluto, ma non potevano, dimenticare. Ed era proprio intorno alla loro sofferenza, cui era, si sarebbe detto "magicamente" sensibilissima, che erigeva, lieve ma alacre, quelli che in certe ventose isole del Mediterraneo, si chiamano ancora adesso i "giardini degli aranci", muri circolari in pietra costruiti intorno alle piante da frutto allo scopo di preservarle da raffiche troppo violente. La signora V. non disponeva di pietre, s'intende, ma, quando intercettava l'aleggiare di fitte gelide capaci di aprirsi un varco ed insinuarsi in profondità, sapeva abbracciare e proteggere.
Una storia fra le tante, quella che mia nonna visse alla "Villa". La malattia proseguiva nel suo cammino e lei, benché circondata dalle più volenterose intenzioni, temo che decise di batterla sul tempo e di lasciarsi andare.
Volevo un bene immenso a mia nonna. Le devo tanti minimi - per me incommensurabili -affettuosissimi ricordi. Eppure, in quei due, tre mesi scarsi che separarono novembre da gennaio, non fui capace di vederla e di ascoltarla. Esigevo da lei che potesse apprezzare la soluzione di quella sistemazione.
Tutti noi andavamo a trovarla spesso, mia madre ogni giorno, con pacchi di biancheria pulita e frutta secca. Quanto a me, quando vi piombavo la spingevo nel locale dell'estetista della struttura, perché potesse prendersi cura delle unghie alle quali aveva sempre tenuto tanto con ambizione femminile, me la tiravo dietro in mezzo agli altri ospiti per fare un po' di conoscenza, arrivavo trionfante con cioccolate calde, procuratemi alla macchinetta automatica appena scovata, per imbottirla di ciò di cui ricordavo andava golosissima. E infine io e mia madre la piazzavamo al suo posto nella sala dedicata alla cena, raccomandandole di mangiare e di sorridere alle sue compagne di tavolo.
Non sono stata capace, accanita in tutto ciò, di vedere le sue mani divenute indifferenti, né di ascoltare il suo silenzio, né di sopportare i suoi rifiuti ad alimentarsi.
Per fortuna anche mia nonna ebbe il suo "giardino degli aranci". E ne beneficiò, anzi, di uno del tutto speciale, perché, come avevamo potuto scoprire sin dal primo giorno, era proprio con la signora V. che divideva la stanza. Le due si incontrarono in un'alleanza solidale, contribuendovi l'una con ciò che mancava all'altra: mia nonna con la memoria ineccepibilmente intatta e la signora V. con la sua capacità di vigilare gaia ma discretamente attentissima, sempre pronta, con un braccio saldo, a salvare la situazione da un ennesimo ruzzolone. La coppia sfidava le assistenti, che credevano le due ospiti limitate ciascuna nei confini del proprio handicap e non potevano certo immaginare le piccole passeggiate notturne a braccetto dopo che mia nonna nel buio… chiamava la compagna, la quale perfettamente indifferente al regolamento, le sganciava le sbarre del letto e la conduceva con un lungo giro a liberarsi di qualche goccia di angoscia. Non parlavano molto e si capivano. Aveva cominciato a non mancare mai, sul comodino di mia nonna, una di quelle splendide arance.
Chi, non solo ad avere la percezione annebbiata, ma anche a continuare non capire, ero io. Fino all'ultimo, fino a quando il momento era infine arrivato. Mia nonna si era spaventosamente indebolita e una domenica dell'inizio dell'anno non era più riuscita ad alzarsi dal letto. La sera, forse per la prima volta in modo esplicito, tese le mani a mia madre e le chiese di aiutarla. Poi, sempre per la prima volta, si fece imboccare da lei per qualche sorso di minestrina. Io ero pronta, in bagno, a prepararle di nascosto i medicinali che mi ero portata dietro dall'ospedale, e che le praticai sfiorandole le ossa in un paio di dolorose iniezioni. Ero convinta si trattasse di un'altra infezione respiratoria, con molta probabilità sin dall'indomani gli antibiotici ed il cortisone avrebbero cominciato a permetterle di respirare meglio e di riprendersi. Cercammo di renderci utili ancora un po', e poi, quando con un viso intimamente risollevato e sereno ci disse "che era il momento di andare", io e mia madre ci allontanammo, più risollevate e serene anche noi. Credendo che avesse cominciato a riposare.
Gennaio è un mese incongruente, pensavo. Dovrebbe rappresentare l'inizio di un nuovo anno, rassicurante ed eccitante insieme, nell'intenzione di tanti nuovi progetti. E, invece, soltanto livido nel freddo che taglia, desolato nella neve sporca ammucchiata ai lati delle strade e vuoto fra feste natalizie che si sono appena spente ed una primavera ancora inimmaginabile.
Il giorno del funerale di mia nonna ero confusa, prima ancora di poter avvertire il dolore. Un funerale fra i tanti, di una persona anziana che aveva esaurito i suoi giorni. Ma quando il suono estraneo di quelle campane avvilite comincia a rintoccare, è solo il nostro anziano che in quel momento occupa … tutto il nostro animo…
- Ma in gennaio si mangiano anche le arance...- mi sussurrò una figurina distinta, protetta dal resto del corteo da un paio di occhialoni scuri. Quella domenica appena trascorsa, dopo che io e mia madre ce ne eravamo andate, la signora V. rimase seduta accanto al letto di mia nonna ininterrottamente per tutta la notte. Le diede un poco da bere, le sistemò le coperte, la accarezzò e la vegliò quando spirò. Le assistenti videro tutto e, questa volta loro perfettamente indifferenti al regolamento, fecero finta di non vedere. Così come socchiusero gli occhi di fronte al rigoglioso intreccio di rami, foglie e lucidi frutti arancioni che si era fittamente abbarbicato intorno a quel letto, avvolgendo di conforto e tepore anche la più nascosta delle viti che tenevano in piedi le sponde in metallo, la testata regolabile, il sollevatore...
Grazie. Grazie anche delle arance sgargianti che io e mia madre, una volta tornate a casa dal cimitero, ci ritrovammo nelle tasche dei nostri cappotti. ..